Wednesday, March 07, 2007

Introduzione

Il ricordo di chi è svanito nella follia della guerra fa dischiudere petali di inchiostro sulle sponde aride del silenzio e vuoti mal celati dai rovi consolanti delle ragioni. L’eco struggente delle passate dolcezze e dei volti di chi si è amato e di chi non c’è più ,si imprime nel mosaico degli istanti e dirotta i pensieri :“Oh, se tu fossi con me, Mia triste amica! Ho dimenticato di dirti Che i giovani del vicinato Ti attendono ancora Pieni di risa bianche. Per te ogni shabbat Indossano Camicie color di pesca E pantaloni di seta Ricamati d’argento”. Frasi , sorrisi ,carezze si adagiano come una volta sulla tela consunta degli occhi destando il dolore dal suo breve letargo:” Oh, mia triste amica Se tu fossi con me! Quante frecce lancerei Per fermare il tuo volo Per chiuderti le ali E tenerti per sempre Prigioniera nella mia gola”.Gerusalemme vive e vive il popolo di Israele tra gli splendori della propria ritrovata e mai tradita terra ,e questa consapevolezza di essere foglia tra le foglie di un unico immenso albero dalle profonde radici che ha vinto le insidie del tempo, è balsamo sulle cicatrici del cuore e svela orizzonti di speranza dando dignità nell’infinitezza della sabbia dell’essere alla finitezza delle proprie orme, all’appassire di ogni singola umana vicenda, agli istanti di sé dati al mondo, agli istanti di sé nel mondo:” La luce ti avvolge Oggi, Israele, Nel giorno della tua festa. E la tua bocca sorride Col sorriso del mare. Israele, Israele, Pura erede Della mia terra promessa La mia terra di sempre La terra che d-o mi ha dato. Le tue grandi radici Penetrano nella mia anima Mentre io pallida e azzurra Mi nutro di te”.Malgrado l’odio incombente del nemico, ogni giorno è occasione imperdibile per stupirsi e per saziarsi delle meraviglie del creato e così si rinnova intensa la commozione nell’osservare la sinfonia del divenire, il volo saggio e stanco di un gabbiano ,”i fiumi d’argento”, le “brune colline di maggio” .Ed è totale l’immergersi tra le onde dell’amore pur nella consapevolezza che non vi è rosa che possa essere colta senza sfiorarne le spine: “Amore mio solenne, Tu sei il kodesh ha kodashim Dell’eterno desiderio In cui vita e morte Si guardano E si abbracciano amiche, Dove regna grandioso Il tuo amore snervante. Portami il tuo calice vuoto Amore mio stupendo, Perché io possa versarvi La mia ansia arrogante”. L’autrice si abbandona fiduciosa ai galoppi indecifrabili dell’anima nelle praterie del sogno traducendone in versi il fascino ed al contempo la vertigine che ne discendono e guidando i sensi del lettore nelle sue scoperte tra i sentieri sempreverdi della fantasia, tra le note incantevoli dell’eros e delle sue intime verità.

Pietro Luigi Longo



A fronte del mare di odio in cui è immerso il piccolo stato di Israele, esiste un fiume altrettanto grande di dolcezza, di rispetto e di amore quasi “incondizionato”, che travolge in maniera irresistibile una parte sempre più numerosa dell’umanità, spingendola verso Sion. O meglio, verso le numerose differenti concezioni che di Sion ciascuno ha, ebreo e non ebreo (come chi scrive), laico, religioso, ateo, fedele o distaccato che sia.

Non è soltanto la fede, quindi, che spinge a credere che in qualche modo Israele sia il coronamento di un piano, di un pensiero, e sicuramente una realtà.
Israele avvolge tutto nella vita di molte persone, tutto abbraccia, trasporta, accoglie, spesso per cammini difficili e nuovi, che tendono spesso ad un ideale. Le fedi misurate di altre terre, oppure il fanatismo e la rabbia causate dalla perdita di grandezze d’un tempo, non sono per Israele; ma le sue grandezze – scienza, tecnica, medicina, cultura –, fedi e ampiezze di vedute, che assorbono e comprendono tutto, tutte ammissibili a tutto, fanno della risorta Sion il faro del Possibile a cui guardano in tanti nel mondo.

E Sigal Harari è una profetessa di questo sguardo d’amore che, come luce, tutto avvolge silente. Dammi il tuo petto squarciato Dalla solitudine invadente Concedimi le tue braccia di pace Illuminate dal sole invernale. Riempi di materia trasparente Il mio cuore che in te si è fuso. Come sei trasparente Oggi, o mia Gerusalemme! Oggi l’anima mia ti abita Con i suoi sogni

Israele migliora la natura, fa fiorire i deserti, li fa fruttificare; le sue scoperte scientifiche fanno piovere benedizioni e benessere su tutti coloro che non sono impegnati a boicottarne i prodotti e, talvolta, pure su questi. Ma questo il mondo non lo sa, o finge di ignorarlo.

Sigal canta quel pensiero originario, animata di una inestinguibile fede nell’Insieme. Quando tutto ci viene negato, terra, casa, parola, giustizia, pace e tranquillità, ci resta la fede in questo piano, racchiuso in Tempo e Spazio. Un piano che riecheggia nelle poesie di Sigal, nella loro freschezza, genuinità, passione, nelle immagini vertiginose. Un piano la cui mancanza porterebbe forse la sapienza e la ricchezza della vita a perdere di significato agli occhi di tanti. Qualcuno mi ha detto Che il Giordano grida la notte Perché non riesce a scordare L’azzurro Mediterraneo. Nel suo percorso d’amore Il Giordano scende Scivolando nella valle Verso il mare del Sale.


Ma cos’è Israele in Israele? E che cos’è Israele fuori di Israele?

Come si potrebbe rispondere a simili domande?

Chiunque o qualunque cosa sia Israele, non teme nei canti di Sigal di perseguire i sentieri dei sogni; non teme che questa pretesa realtà svanisca di sotto i piedi e le mani.

Il vero volto di Israele non è quello dipinto da numerosi prezzolati mass-media, opinion-makers e politicanti. In ogni momento il suo aspetto, le gioie, la parola, le case, i mestieri, i modi, gli affanni, i dolori, le follie, gli abiti, sono sotto gli occhi di tutti, senza mura ma solo cristallo. Basta aprire gli occhi e appare la vera anima di Israele, il suo corpo vero: lavoro, affari, botteghe, fattorie, industrie, centri di ricerca, moda, università, divertimento, voglia di vivere... e tanta sofferenza, ancora.

Chiunque sia e qualunque cosa sia Israele, è per Sigal la poesia, un sussurro accostato dalle sue labbra ai nostri orecchi, e diretto al cuore. Una volta aperti gli occhi sulla realtà di Israele, non si può amare nessuno di più. Oh, Occidente negligente e sciocco, da lungo tempo avresti dovuto accostarti a questa società libera e creativa, senza ciarlare d’altro se non di cosa fare insieme di buono per il mondo e per l’umanità!

I canti di Sigal possono essere, in qualche passo laceranti di tristezza, una tristezza che viene solo dal male che la sua amata terra è lasciata da sola ad affrontare. Ma quel dolore si fa luce dorata altrove, gioia, esplosioni di risa davanti alle promesse di un nuovo giorno. Non voglio vedere bambini Che eternamente cercano Le loro biglie di vetro Sotto l’ombra scura del male. Lasciatemi in questo campo Nel mio paese perduto Non voglio vedere pugnali Che ti trafiggono il cuore. Voglio vedere Orizzonti di luce Piangere ed amare

Molte cose avvolgono Sigal in una specie di mistero: il silenzio, la scrivania, l’espressione vivace e quella dolcissima, il grido tagliente e la carezza, e ancora la notte, la quotidianità, lo sguardo vivo, pieno ad un tempo di richieste e di timori che esse vengano esaudite; uno sguardo fiero e dolce, da imputata e giudice. Ma sono certo che davanti a Sigal si sta aprendo un cammino.



Carmine Monaco

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